Tre talenti a Siracusa

di Martina Treu

IL TEATRO E LA CITTÀ - 53° ciclo di rappresentazioni classiche, Teatro greco di Siracusa

Sette Contro Tebe di Eschilo, regia di Marco Baliani, 6 maggio-24 giugno 2017

Fenicie di Euripide, regia di Valerio Binasco, 7 maggio-25 giugno 2017

Rane di Aristofane, regia di Giorgio Barberio Corsetti, 29 giugno-9 luglio 2017

 

La scorsa stagione siracusana di spettacoli classici ha segnato un nuovo record di presenze e di incassi, stando al comunicato ufficiale della Fondazione INDA (14 luglio 2017), per il secondo anno consecutivo e con un miglioramento ulteriore rispetto ai risultati già lusinghieri del 2016: oltre 140 mila spettatori, di cui 38 mila giovani, e un incremento del 18% dei ricavi (1). Nei giorni precedenti la stessa Fondazione aveva già emesso un trionfale comunicato relativo al bilancio 2016 (7 giugno 2017) e annunciato anche un’altra ambiziosa trilogia in programma per il 2018: Edipo a Colono di Sofocle, Eracle di Euripide, Cavalieri di Aristofane. Queste notizie, e gli spettacoli visti a Siracusa, offrono vari spunti per fare un bilancio di altro genere, artistico più che economico, sulla base dei dati forniti dalla Fondazione.

 Una prima lettura dei comunicati citati richiama alla mente una nota parabola evangelica: tre servi sono incaricati di far fruttare i talenti del padrone, con esiti alquanto diversi. Fuor di metafora i committenti, ossia la Fondazione INDA e la città stessa, portano ‘in dote’ il teatro greco, nonché un patrimonio di oltre un secolo di rappresentazioni, ed investono anche un ingente ‘capitale’ di ‘talenti’ – ossia i mezzi e le risorse artistiche, umane, economiche di cui dispongono – al fine di farli fruttare al meglio. E stando ai dati citati sopra, a quanto pare, i ricavi sono nel complesso adeguati. Ma a una seconda lettura più attenta si possono rilevare discrepanze anche notevoli nel modo in cui detti talenti sono amministrati nei singoli spettacoli: in particolare ciascuno dei tre registi della stagione 2017, come i servi della citata parabola, sembra usare i talenti a disposizione in modo affatto diverso, con risultati alquanto eterogenei.

In quest’ottica, proprio per la peculiarità della stagione, prima di confrontare i tre spettacoli vale la pena di ricordare brevemente il loro contesto, ossia le caratteristiche della città e del suo teatro, del suo spazio e del suo pubblico. Al pari dell’antica Atene la polis siracusana vive la stagione degli spettacoli, breve ma intensa, partecipando con passione alla preparazione e alla fruizione di un vero rito collettivo che si compie nei mesi precedenti alla ‘prima’, e appassiona molti cittadini di nascita o di elezione: la scelta dei registi, dei titoli, degli attori e degli altri partecipanti agli spettacoli. In questo contesto si inquadrano, e si saldano insieme, due aspetti cruciali: il primo anello della filiera (produzione, organizzazione degli spettacoli) e l’ultimo, cioè la fruizione da parte del pubblico.

Riguardo a quest’ultimo aspetto, che meriterebbe uno studio a parte, basti ricordare che Siracusa è un luogo d’elezione per la ‘tribù’ che in teatro lavora, o che lo frequenta assiduamente, o la visita ogni anno ‘in pellegrinaggio’(2). Mecca e meta di questo viaggio iniziatico, alla ricerca di Dioniso, è naturalmente il teatro greco, cuore pulsante della città, dove ogni sera si celebra una sorta di rito. Non riservato però ai soli adepti, ossia ai fedeli seguaci di Dioniso, bensì ‘democraticamente’ aperto a un pubblico stratificato, variopinto, eterogeneo per età e per lingua (il siciliano e il greco, per primi): una miscela di neofiti, curiosi, avventizi, classicisti, studenti, professori, appassionati amatori di teatro e molti altri ‘tipi’ che ancora, a distanza di secoli, ricordano i personaggi delle commedie di Aristofane o di Menandro.

Per quanto riguarda invece il primo aspetto, la produzione degli spettacoli, va specificato che la stagione 2017 presenta rilevanti aspetti di novità rispetto al passato, anche se si tratta pur sempre di una trilogia sui generis: due tragedie greche e una commedia di Aristofane. Quest’ultimo, per di più, torna a calcare le scene di Siracusa dopo due anni di assenza(3). Il 2015 e 2016 aggiungevano infatti a due tragedie greche una tragedia latina, rispettivamente Medea e Fedra di Seneca, poi riprese in tournée anche in altre sedi: tra cui il Colosseo romano, in una replica straordinaria trasmessa anche in TV(4).

Il dramma latino, pur premiato dal successo, non è più tornato a Siracusa: alla fine della stagione 2016, infatti, la Fondazione INDA annunciava per il 2017 una trilogia tutta greca, intitolata “il teatro e la città”. La sfida ambiziosa era celebrare un’importante ricorrenza, il 2750° anniversario della polis siciliana, con una stagione inaugurata da due tragedie ‘tebane’ di diverso autore, ma con soggetto analogo: Sette a Tebe di Eschilo e Fenicie di Euripide. A dire il vero la scelta poteva sembrare tutt’altro che bene augurante, per un tale anniversario: le due tragedie notoriamente si incentrano su una guerra civile, e fratricida, dove i figli di Edipo muoiono combattendo per il possesso della città. Ma il fatto che lo stesso argomento sia trattato rispettivamente da Eschilo e Euripide doveva idealmente preparare il terreno per la terza opera in programma: le Rane di Aristofane.

Con quest’ultima, probabilmente, si intendeva suggellare la trilogia rendendo omaggio a colui che alla polis ha consacrato la vita e l’opera, e perdipiù con un ‘ritorno’ in grande stile: la sua commedia metateatrale più ambiziosa ritrae proprio i due tragediografi sopra citati, in una gara a colpi di versi per la palma di miglior poeta, arbitrata da Dioniso. Così anche a Siracusa, in teoria, lo spettatore assiduo poteva seguire le orme dionisiache, giudicare sulla scena le tragedie, e magari esprimere un verdetto personale prima di assistere al confronto finale, nella sintesi comica di Aristofane (nelle Rane del Teatro Due di Parma, ad esempio, si chiedeva al pubblico in sala di votare il tragico preferito sulla base dei versi che aveva appena sentito)(5).

Ed ecco la prima sorpresa: c’era da aspettarsi che la commedia seguisse a ruota le due tragedie, perché il confronto potesse ‘funzionare’ davvero. Invece purtroppo, come già in passato, la tradizionale rotazione dei drammi, a sere alterne, ha riguardato solo le tragedie: inspiegabilmente la commedia è stata rappresentata in coda alla stagione, a distanza di diversi giorni dall’ultima replica di Fenicie (così è stato anche nel 2016 con l’alternanza di Elettra e Alcesti, seguite a distanza da Fedra). Lo iato ha impedito ai più di vedere tutti e tre i drammi, a meno di non tornare due volte a Siracusa, o di fermarsi più giorni per unire le ultime due repliche delle tragedie e la prima della commedia (come già l’anno scorso). Questa scelta, non motivata pubblicamente dalla Fondazione INDA, forse risponde a logiche economiche, in termini di costi o di ricavi. Ma compromette decisamente l’unità della trilogia e il senso stesso del confronto, specie per il palato competente (ed esigente) del pubblico più colto e assiduo che torna ogni anno a Siracusa(6).

In tal senso un termine di paragone importante, nella memoria degli spettatori e nelle cronache cittadine, è individuabile nel precedente illustre di una trilogia simile, la sola diretta da Luca Ronconi a Siracusa nel 2002: in quell’occasione Prometeo e Baccanti vennero rappresentate in alternanza con Rane in modo che la commedia fosse sintesi, coronamento e completamento delle due tragedie, con una encomiabile e programmatica unità di scelte registiche e di attori (in particolare Massimo Popolizio interpretava Dioniso sia nelle Baccanti sia nelle Rane) che per certi aspetti si può considerare una pietra miliare nel rapporto tra la moderna polis e il suo teatro(7).

Rispetto a quella trilogia la Fondazione INDA ha operato cambiamenti sostanziali ai danni della visione unitaria della trilogia: oltre a ridurre l’alternanza a due drammi su tre, e a dilatare gli spazi tra i primi due e l’ultimo, ha ‘slegato’ ulteriormente la trilogia con la scelta dei registi. Non più un solo artefice, ma ben tre tutti di fama e debuttanti a Siracusa – rispettivamente Marco Baliani, Valerio Binasco e Giorgio Barberio Corsetti – alquanto diversi per percorso, formazione, scelte artistiche. Ai tre nomi di rilievo si aggiunge, per le Rane, una ‘coppia comica’ collaudata – Salvo Ficarra e Valentino Picone – anch’essa debuttante a Siracusa, ma ben nota al grande pubblico per una carriera di successo al cinema e in televisione.

Queste scelte inducono a una riflessione, a consuntivo, sui testi, sui registi o sugli interpreti. Innanzitutto, è doveroso premettere, cosa comporta dirigere, o recitare, uno spettacolo a Siracusa? Ogni regista riceve ‘in dote’ un’eredità cospicua, ma al tempo stesso impegnativa in termini di spazio (il teatro greco), risorse (il budget, il coro, gli attori), prestigio (il più importante festival di spettacoli classici in Italia). Un teatro antico all’aria aperta è già di per sé un banco di prova arduo, comprensibilmente, non solo per le sue caratteristiche strutturali, fisiche, tangibili (la fragilità del contesto, la vastità e imponenza dello spazio, la dialettica tra luce naturale e artificiale, lo sguardo che si perde all’orizzonte, oltre la scena, e così via(8)), ma anche per il peso della tradizione (specialmente qui, dove hanno lavorato molti dei più celebri uomini, e donne, del nostro teatro). Per questi e altri motivi il teatro di Siracusa facilmente può intimorire e inibire chi lo affronta per la prima volta, da regista, da attore, da scenografo, da musicista o compositore(9).

Richiamare tali condizioni è essenziale per capire il peso che grava sulle spalle dei registi, e specialmente sui tre in questione, tutti debuttanti a Siracusa. Ognuno ha affrontato la prova a suo modo, dando vita a spettacoli tanto diversi tra loro da poterli quasi considerare altrettanti paradigmi: tre modi diversi di investire i talenti, per tornare alla citata parabola(10). Un sintetico confronto per punti permette di evidenziare come ciascuno di loro ha messo più o meno a frutto le risorse a sua disposizione. Per prima cosa i tre testi in scena: si è accennato sopra alla mancanza di coesione tra la resa delle due tragedie, all’assenza di rimandi a livello registico. L’unico segno di continuità è rappresentato dalle sobrie scene di Carlo Sala, che in entrambi i casi utilizza pochi elementi simbolici, diversamente declinati, per evocare la città di Tebe cinta d’assedio, le sue porte, lo spazio esterno dove si combatte e si muore.  

C’era però da aspettarsi un dialogo ben più serrato e fecondo tra gli spettacoli, visto che la drammaturgia di Fenicie riprende quella dei Sette, con variazioni dichiarate e programmatiche. Ne ha dato prova, da tempo, non solo l’analisi drammaturgica, ma anche la prova della scena: già venti anni fa il regista Gabriele Vacis evidenziava bene analogie e differenze tra i due testi, Sette e Fenicie, nei suoi laboratori con gli allievi attori della Scuola d’arte Drammatica “Paolo Grassi” di Milano, e nei rispettivi saggi finali (rispettivamente nel 1992 e 1997)(11).

Come negli spettacoli di Vacis, anche in quello di Baliani il coro è autentico protagonista, vero perno dello spettacolo e suo principale punto di forza: la chiave del ‘ritorno alle origini’, alla sostanza nuda e cruda del testo eschileo, sta nella riscoperta e valorizzazione di una risorsa che raramente gode di un ‘investimento’ così cospicuo in termini di tempo, spazio e attenzione, in epoca moderna(12). Il ‘capitale umano’ è il talento che dà maggior frutto, a parere di molti, grazie al paziente, meticoloso lavoro di squadra condotto dal regista insieme con la compagnia e i suoi collaboratori: il già citato scenografo Sala, l’autore delle musiche Mirto Baliani, i vari responsabili di coreografia, costumi, luci, che concorrono a creare uno spettacolo veramente corale.

Così supportati, gli interpreti (attori e allievi dell’Accademia del Dramma Antico), possono formare un insieme compatto, capitanato da una valida corifea: rigorosamente anonima in Eschilo, qui ‘personalizzata’ nella figura di Antigone, anticipando la sua effettiva comparsa nell’ultima scena del dramma eschileo (con un rimando, implicito ma ovvio, all’Antigone di Sofocle)(13). A lei spetta l’arduo compito di sparigliare come ‘terzo polo’ lo schema rigorosamente binario di questa tragedia (due soli attori in scena, Eteocle e il messaggero, mentre Polinice non appare mai). E Baliani ‘raddoppia la posta’, ‘duplicando’ il dramma dei due fratelli in un doppio coro: alle ragazze tebane (che Eschilo ben contrappone ai due personaggi maschili citati), affianca un secondo coro maschile, di cittadini/soldati. E riesce così ad animare, anzi ‘resuscitare’, una tragedia dalla struttura arcaica, dando corpo e voce alla successione di scene e specialmente alla celeberrima descrizione dei guerrieri e dei loro scudi, fulcro simbolico del dramma. Grazie a loro anche il lungo e dettagliato elenco non suona affatto arcaico, ma anzi viene letteralmente rivitalizzato: ogni guerriero, man mano che è evocato in scena, viene incarnato da un attore, issato sul traliccio mobile che richiama lo scudo, sorretto dagli altri in un vero e proprio quadro vivente di grande suggestione e forza icastica.

Dopo il coro, altro punto a favore dello spettacolo è l’uso dello spazio scenico, arduo banco di prova in questo teatro: la regia ne sfrutta bene la conformazione e ne utilizza ogni area praticabile, compresa la cavea, il balcone della piccola costruzione sovrastante (dove Eteocle appare dall’alto), la ‘tribuna’ aggettante sull’orchestra alla destra del pubblico. Terzo e ultimo, tra i talenti saggiamente messi a frutto, è il lavoro sui suoni condotto da Mirto Baliani (che merita uno studio a parte, ancora in corso): il testo eschileo è sottoposto a una disamina scrupolosa e attenta alle sonorità originarie, in particolare nelle parti corali(14). Così l’ambiente sonoro, creato ‘su misura’ degli interpreti, si carica di echi ancestrali, di contrasti stranianti, talora inquietanti. E fa da perfetto contraltare alle voci umane: i canti corali si alternano a grida, ordini, silenzi, rumori di fondo, raggiungendo vette di grande efficacia quando il coro, dall’interno della città, ‘vede’ l’assedio e descrive gli echi della battaglia con angoscia crescente.

Confrontando l’uso nei Sette dei tre ‘talenti’ citati (ossia del coro, dello spazio, dei suoni) spicca vistosamente il contrasto con la messinscena di Fenicie, che gli stessi talenti ‘sotterra’, come vedremo, sistematicamente. E la delusione è tanto più inaspettata quanto più i prodromi sono promettenti: prima dell’inizio, con una trovata inedita, il pubblico è accolto ai cancelli del teatro dagli allievi attori dell’Accademia, che recitano a ciclo continuo alcuni miti di fondazione di Tebe – cornice e premessa della tragedia euripidea – rielaborati in forma di cunto(15); la felice reinvenzione prende a prestito dal genere tipicamente siciliano il ritmo, la tecnica, l’intercalare, la lingua, i costumi, le movenze, l’attrezzatura (con tanto di cavalletto e tavola dipinta).

Il pubblico – inizialmente diffidente, frettoloso o distratto – viene subito conquistato da questi finti ‘artisti di strada’, che poi rivedrà in scena come coreuti: purtroppo non li potrà più riconoscere né apprezzare, in quanto condannati sin dalla parodo a restare inesorabilmente muti, accucciati su un tappeto, come parte integrante della scenografia. Oltretutto il loro volto è coperto da maschere inerti, il corpo da costumi paludati che ostacolano i pochi movimenti, limitati a parti corali esigue, confinati a uno spazio irrisorio, rispetto a quello disponibile. E si può facilmente immaginare che come saggio finale sia molto frustrante, per i giovani allievi dell’Accademia, rispetto alle movimentate coreografie dei Sette. Non va molto meglio agli attori professionisti, costretti a restare per gran parte del tempo immobili o seduti (perfino Edipo, che avrà una parte solo a fine dramma, entra in scena sin dall’inizio, guastando l’effetto-sorpresa, e poi attende con pazienza il suo turno): tutti disposti al centro o ai lati dell’orchestra, come pedine di una scacchiera. L’effetto può forse piacere sulle prime, ma ben presto si perde il filo del discorso e i microfoni rendono difficile seguire chi sta parlando. Il peggio tocca alla corifea, ritta in piedi all’asta del microfono, ridotta a voce fuori campo totalmente inespressiva (perdipiù, con inevitabile effetto parodico, il finto accento dell’Est la fa sembrare Marina Massironi nello sketch dei Bulgari di Aldo, Giovanni e Giacomo). Accanto a lei, un pianoforte in scena produce incessantemente arpeggi monotoni e ripetitivi in modo irritante (sembra un disco rotto, l’incipit di un Chiaro di Luna che non finisce mai), privi di legami apparenti con la Fenicia o con la Grecia, o con altri elementi della messinscena, al pari della canzone finale – Heroes di David Bowie – che a parte il contrasto col tema della tragedia (di certo anti-eroico) pare un tocco giovanilistico, una strizzata d’occhio al pubblico, una caduta di stile (peraltro non l’unica, a dire il vero: basti citare l’ingiustificata svolta parodica e dialettale del messaggero che forse vorrebbe essere tragicomico, ma sembra ai più una scorciatoia ‘facile’ per ingraziarsi il pubblico).

Simili stratagemmi, in definitiva, non bastano a risollevare uno spettacolo statico, senza idee e senza ritmo, che mette a dura prova il pubblico: una messinscena ‘da camera’ che già sembrerebbe povera in un teatrino off, con pochi mezzi e poco spazio. A Siracusa a maggior ragione pare un inutile spreco di risorse, anzi suona come un insulto a chi, invece, le idee le avrebbe e non ha i mezzi per metterle a frutto: che senso ha sotterrare così i talenti ricevuti in dote (per non parlare del budget, ma limitandoci all’uso del coro, dello spazio, della musica, per citarne solo tre, a nostro avviso fondamentali in ogni spettacolo classico)? Specialmente in un teatro antico con questa storia, allure e prestigio? Si tratta forse di una provocazione, o iconoclastia, ‘contro’ il sistema della produzione? In tal caso sarebbe stato meglio esplicitarlo, magari con una sfida aperta, purché originale e giustificata.

Scegliere e dirigere gli attori, seppur validi, non pare sufficiente: occorre cimentarsi realmente con uno spazio impegnativo, con un coro numeroso, con le altre peculiarità del dramma greco a cui ogni regista, anche debuttante, deve far fronte volente o nolente, se accetta la sfida di dirigere qui una tragedia. Dei tre registi in gioco Binasco, come il servo della parabola, senz’altro è il peggiore nell’amministrare i talenti ricevuti. In una posizione intermedia tra lui e Baliani si può infine collocare il terzo regista, Barberio Corsetti, che non moltiplica i talenti, né li sotterra, ma li restituisce pari pari: riceve in dote come si è detto una coppia comica collaudata e di successo, il che è un vantaggio in partenza per una commedia sin dall’epoca di Aristofane (quando gli autori si contendevano il premio e il favore del pubblico senza poter scegliere i propri attori, che venivano sorteggiati): a maggior ragione oggi, che il teatro seppure a Siracusa ha un pubblico minoritario rispetto a cinema e televisione. Quale fortuna maggiore che avere a disposizione due volti noti a un’ampia platea di ‘non-spettatori’, nomi di richiamo anche per chi non ci ha mai messo piede a teatro, tantomeno in uno antico?

Difatti i biglietti delle Rane vanno subito a ruba e già a inizio commedia, come volevasi dimostrare, i due non devono ‘scaldare il pubblico’ come si dice in gergo: appena entrano in scena nella cavea scoppia una risata, e nel seguito della commedia sanno conquistare anche gli spettatori più esigenti, o prevenuti: non solo sanno la parte (e non è poco!), ma si sentono a loro agio nei panni di Dioniso e Xantia, se li cuciono addosso, li fanno propri. Ficarra e Picone ci tengono a questo ruolo, e poco importa francamente se il loro amore per il teatro greco si mescoli alla volontà di mettersi alla prova, o di aggiungere una medaglia al curriculum, di darsi lustro e dignità, o nasconda un complesso di inferiorità da comici televisivi nei confronti del teatro antico.

Forse per questo, o per un certo timore reverenziale, sono limitati al minimo gli interventi sul testo aristofaneo, a parte qualche piccola battuta: pochissimi tagli e ad aggiornamenti (da cui pure, a nostro parere, lo spettacolo avrebbe tratto giovamento). Eppure i versi poetici o i nomi propri dei bersagli della satira, contenuti nel testo, erano più o meno noti nell’Atene di Aristofane, ma oggi sono emeriti sconosciuti. Dunque per aumentare l’effetto comico si potevano sostituire o almeno affiancare con i loro equivalenti moderni, come già altri hanno fatto in passato, anche a Siracusa(16). A maggior ragione vista la ‘trovata’ che chiude lo spettacolo, un frammento di intervista di Pasolini a Pound (moderni Eschilo e Euripide?): non essendo preparata né supportata da precedenti interventi sul testo, né spiegata o giustificata in altro modo, pare un omaggio posticcio appiccicato alla fine, come una patacca al posto di una medaglia vera. A parte questo discutibile intervento sul piano registico, come su quello drammaturgico, non se ne registrano di memorabili (anche i pupazzi che animano il duello tra i tragediografi non colpiscono per originalità e efficacia, e alla lunga stancano). Del resto la regia, tanto discreta da parere quasi invisibile, si costruisce letteralmente ‘su misura’ della celebre coppia, che appare da subito perno e ragion d’essere dello spettacolo (ancor prima che si vada in scena, già dalla campagna pubblicitaria che precede il debutto).

Il regista sembra mettersi al loro completo servizio, per far risaltare la loro parte: li affianca con comprimari in grado di reggere il confronto e la lunga successione di scene (pur con qualche stanchezza nel duello a colpi di versi tra Eschilo e Euripide); sceglie una scenografia essenziale e ‘componibile’, un coro vestito e truccato a colori vivaci (con un tocco osé che non guasta, viste le origini della commedia antica), numeroso come si conviene ad Aristofane (non limitato ai più esperti allievi dell’Accademia, come nelle tragedie, ma esteso alle giovani leve), capace di movimenti coreografici semplici, eppure efficaci, guidato da un valido corifeo.

Questa massa mobile e colorata basta a riempire l’intera orchestra, sfruttandone lo spazio vuoto – per citare l’ultimo dei tre parametri fin qui considerati – e con il valido ausilio di un’unica fonte di musica in scena: i Sei Ottavi, sestetto vocale ben noto agli intenditori, per la maggior parte del pubblico è la rivelazione dello spettacolo. Tra citazioni colte e pop, onomatopee, beatboxing e ritmi sincopati offre la colonna sonora perfetta per uno spettacolo ‘leggero’, che assolve al compito di far ridere (nella prima parte) ma senza lasciare veramente il segno, senza mai scendere sotto la superficie o scavare nel profondo, fino al cuore di Aristofane: quello humour nero, un misto di ottimismo e disperazione (per cui tanti registi, come Marco Martinelli, lo amano e lo considerano così attuale)(17) frutto dei suoi tempi (ha vissuto quasi sempre in guerra) a maggior ragione nel caso delle Rane: la commedia che è forse il suo ‘testamento poetico’, rappresentata nel 405, com’è noto, in un’Atene piegata dalla guerra, all’indomani di una rovinosa battaglia, e ormai sulla soglia del baratro. Per questo i versi di Eschilo e Euripide brillano come ultimi fuochi di artificio, tanto più splendidi e luminosi quanto più immersi nella notte di una città allo stremo, tra echi di guerra e di tirannide, e i foschi presagi dell’imminente resa all’eterno nemico spartano. Cogliere questi spunti nella commedia, e porli in connessione con le due tragedie (anch’esse dominate dalla guerra, e per di più civile) poteva dare forza e nerbo alla messinscena, ma anche contribuire a tracciare una linea di continuità tra i tre drammi in scena. Speriamo che possa regalarci questo, la trilogia annunciata per il 2018, visto che non è accaduto quest’anno: invece di una trilogia ‘legata’ si è vista una trilogia ‘mancata’, dove i talenti investiti – a prescindere dal guadagno complessivo – hanno fruttato in modo diseguale, ma mai al massimo delle loro potenzialità.

Martina Treu

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(1) L’anno scorso un analogo comunicato ufficiale (30 giugno 2016) annunciava un record assoluto in oltre cento anni di spettacoli: quasi 120 mila spettatori (con una crescita rispettivamente dell’11% di presenze medie per replica, 3,6 % totali e 7% di incassi rispetto all’anno precedente) di cui oltre 37 mila studenti, più gli allievi dell’Accademia d’arte del Dramma antico che partecipavano agli spettacoli e i 1800 studenti/attori del Festival dei Giovani a Palazzolo Acreide. Si vedano per quella stagione, e per una più ampia riflessione sul pubblico (in particolare di giovani), M. Treu, Forever Young? Coro, attori e pubblico alla ricerca di Dioniso, «Stratagemmi. Prospettive teatrali» XXXIV (2016) 43-74. 

(2) La composizione del pubblico, specie siracusano, è un argomento ampio e complesso, non affrontabile qui per ovvie ragioni, che meriterebbe studi approfonditi, con rilevamenti, questionari, statistiche alla mano. Si veda M. Treu, Forever Young?, cit. sopra alla n. 1.

(3) Per circa un decennio, fino al 2014, Aristofane è stato rappresentato a Siracusa con cadenza regolare (dopo un esilio durato un secolo, eccetto sporadiche apparizioni nel 1927, 1976, 1988, 1994). Il successo di pubblico trova riscontro in molti critici che ritengono i recenti spettacoli comici migliori dei tragici: si vedano le recensioni di Giuseppe Liotta su «Dionysus ex Machina», sezione Notizie (in particolare l’articolo Fuori dal coro, al paragrafo 3 La preminenza del coro, 12 luglio 2012, http://www.dionysusexmachina.it/?cmd=news&id=94) e M. Treu, E tutt’ad un tratto: il coro, «Stratagemmi» 20 maggio 2014 (http://www.stratagemmi.it/e-tutto-ad-un-tratto-il-coro/). Per una più ampia panoramica sulla reception aristofanea in Italia cf. M. Treu, Who’s Afraid of Aristophanes? The Troubled Life of Ancient Comedy in 20th-century Italy, in S. Douglas Olson (ed.), Ancient Comedy and Reception, Berlin 2013, 945-63.

(4) Sulla trilogia 2015 si veda, tra gli altri, G. Liotta, Lontani per dove, «Dionysus ex Machina», sezione Notizie, 24 luglio 2015, su quella 2016 cf. C. Barone, Lutti e dolore hanno nome di donna (Siracusa, teatro greco), «Scenario» 21 maggio 2016, http://www.inscenaonlineteam.net/index.php?option=com_content&view=article&id=3675:caterina-barone-lutti-e-dolore-hanno-nome-di-donna-siracusa-teatro-greco&catid=5:pagine&Itemid=5); M. Giovannelli, Teatro greco di Siracusa: quale attore tragico nel nuovo millennio?, doppiozero.com 2 giugno 2016; Ead., Siracusa: una Fedra spregiudicata, «Stratagemmi» 30 Giugno 2016 (http://www.stratagemmi.it/?p=8612), F. Serrazanetti, Il teatro di Siracusa e la (ri)scrittura dello spazio scenico, «Stratagemmi» 20 giugno 2016, http://www.stratagemmi.it/?cat=134.

(5) Lo spettacolo (2013) è stato di recente replicato (10 luglio 2017) nel teatro all’aperto per cui era stato in origine concepito, l’Arena Shakespeare di Parma: si veda M. Treu, Un’Arena nuova per il teatro antico: Persiani di Eschilo e altri appuntamenti a Parma, «Stratagemmi» 7 luglio 2017, http://www.stratagemmi.it/unarena-nuova-per-il-teatro-antico-persiani-di-eschilo-e-altri-appuntamenti-allarena-shakespeare-parma/ con rimando alla recensione del 2013.

(6) Sulla base di questi presupposti è auspicabile che nella prossima stagione il calendario non ricalchi quello del 2017, dato che i Cavalieri di Aristofane saranno una prima assoluta a Siracusa, dopo ‘l’occasione mancata’ della rappresentazione tentata da Ettore Romagnoli negli anni Venti: si veda a riguardo M. Treu, Satira futurista e Satiri siciliani, «Quaderni di Storia» LXIII (gennaio-giugno 2006) 345-70.

(7) Cf. M. Treu, “Protagonista” e “Mattatore”. Attori antichi e moderni a confronto, in E. Matelli (a cura di), L’Attore Tragico. Giornata di Studi in Onore di Fernando Balestra, 25 febbraio 2017, Milano in corso di stampa e Ead., Aristofane imbalsamato, «Diario della settimana», anno VII, XXXV-XXXVI (13 settembre 2002) 88-92. Il casus belli per Ronconi fu la scenografia, dove campeggiavano tre manifesti (ciascuno ritratto distorto di un leader della coalizione al governo), che in epoca di campagna elettorale (le amministrative) suscitarono veementi attacchi da parte di politici locali. L’esito, vale la pena di ricordarlo, fu una plateale autocensura ‘di protesta’, con la rimozione dei manifesti e una positiva ricaduta in termini di ‘pubblicità’ allo spettacolo.

(8) Cf. F. Serrazanetti, Il teatro di Siracusa, cit. alla n. 4, e R. Viccei, Nota storica e archeologica a margine delle rappresentazioni dell’INDA, «Stratagemmi» 22 luglio 2016 https://www.stratagemmi.it/il-teatro-antico-di-siracusa-nota-storica-e-archeologica-a-margine-delle-rappresentazioni-delinda/.

(9) Nel teatro di Siracusa, in particolare, va ricordato che le modifiche, spoliazioni e mutilazioni subite nel tempo, inclusa la rimozione della parete scenica di fondo, hanno pesanti ripercussioni in termini visivi e acustici, per l’invitabile “sconfinamento” di sguardi oltre la scena, la rifrazione e dispersione del suono tra interno e esterno, la scarsa protezione dai rumori di fondo (malgrado la deviazione del traffico dalle strade limitrofe: si veda a riguardo Treu, Forever Young?, cit. alla n. 1, e Aristofane imbalsamato, cit. alla n. 7).

(10) Dato il carattere del presente studio, limitato a un confronto sintetico tra gli spettacoli, si rimanda per una descrizione puntuale alle numerose recensioni già apparse su giornali e riviste specialistiche, tra cui C. Barone, L’assedio di Tebe e la fenomenologia della guerra secondo Eschilo e Euripide, drammaturgia.it 29 maggio 2017, www.drammaturgia.fupress.net/recensioni/recensione1.php?id=6850, M. Giovannelli, Dramma antico a Siracusa / Baliani e Binasco: la sfida del coro, doppiozero.com 25 maggio 2017, Ead., Aristofane secondo Ficarra & Picone, doppiozero.com 13 luglio 2017.

(11) Cf. rispettivamente per il primo spettacolo U. Albini, Come può parlarci il coro greco, «Dioniso» LXIII (1993) 46s., per il secondo M. Treu, Le Fenicie da Euripide, «Maia» II (1998) 366-74 (ripreso con sostanziali modifiche e integrazioni in  M. Treu, Cosmopolitico. Il teatro greco sulla scena italiana contemporanea, Milano 2005, 203-27. Dei due spettacoli di Vacis, solo il secondo è ricordato (per la ripresa a Torino nel 2000) nel Numero Unico su Fenicie pubblicato dalla Fondazione INDA (V. Fiore, Tebe sulla scena, in Euripide, Fenicie, Siracusa 2017, 86s.).

(12) Il coro greco è notoriamente un banco di prova per i registi moderni, ma quando ‘funziona’ può diventare il ‘cuore pulsante’ di uno spettacolo ed essere ‘rivelatore’ di pregi e difetti dell’intera messinscena. Il trattamento del coro nei testi antichi è infatti condizionato da molti fattori, che a loro volta nella riscrittura e messinscena moderna comportano un gran numero di variabili. Le soluzioni adottate a riguardo possono di volta in volta valorizzare o viceversa offuscare, attenuare o perfino compromettere l’efficacia del coro (e di conseguenza anche dell’intero allestimento). In tal senso si esprime, citando anche il caso di Siracusa, Andrea Camilleri: «I guai per un regista che, in Italia, deve mettere in scena un autore, classico o moderno, che adopera il coro, cominciano proprio da lì, dal coro» (A. Camilleri, Le parole raccontate. Piccolo dizionario dei termini teatrali, Milano 2001, 32). Sul trattamento del coro nella stagione siracusana 2017 cf. anche M. Giovannelli, Dramma antico a Siracusa / Baliani e Binasco: la sfida del coro, cit. alla n. 10; più in generale sulla complessa questione della resa del coro in scena si vedano: D. Del Corno, Erinni e boy-scouts. Il coro nelle riscritture moderne della tragedia greca, in L. De Finis (a cura di), Scena e spettacolo nell’antichità, Firenze 1989, 79-88, M. Treu, Coro per voce sola. La coralità antica sulla scena contemporanea”, «Dioniso» n.s. VI 2007 286-311. Si vedano anche, oltre i nostri confini, H.P. Foley, Envisioning the Tragic Chorus on the Modern Stage, in C. Kraus – S. Goldhill – H.P. Foley – J. Elsner (eds.), Visualizing the Tragic. Drama, Myth, and Ritual in Greek Art and Literature. Essays in Honour of Froma Zeitlin, Oxford 2007, 353-78; P. Meineck, The thorniest problem and the greatest opportunity. Directors on Directing the Greek Chorus, in R. Gagné – M. Govers Hopman (eds.), Choral Mediations in Greek Tragedy, Cambridge 2013, 352-83.

(13) In teoria Sofocle quest’anno è ‘il grande assente’, nelle tragedie come nelle Rane aristofanee, ma in realtà l’eco di Antigone e della sua ingombrante reception appare onnipresente, come modello implicito, nei finali delle tragedie: mantenuti da tutti i registi, malgrado siano – a parere di molti – aggiunte posteriori al testo autentico.

(14) Il compositore ha attinto in particolare al saggio di G. Ieranò, La musica del caos, in L. Belloni (a cura di), Dalla Lirica al teatro, nel ricordo di Mario Untersteiner (1899-1999), Trento 1999, 323-53.

(15) In modo simile, le sopra citate Fenicie di Vacis (vd. sopra n. 11) rielaboravano i miti citati o descritti da Euripide, specie nei canti corali, arricchendoli con altri testi antichi e moderni, dalle Metamorfosi di Ovidio a Le Nozze di Cadmo e Armonia di Roberto Calasso (cf. per una dettagliata descrizione M. Treu, Cosmopolitico, cit. alla n. 11, 215-18).

(16) Oltre a Ronconi (cit. sopra alla n. 7), a Siracusa va ricordato a tale riguardo la rielaborazione e regia di Vincenzo Pirrotta sulle Donne a Parlamento di Aristofane: cf. M. Treu, Una parabasi per le donne: l’Aristofane di Pirrotta a Siracusa, «Dionysus ex Machina», sezione Notizie 4 luglio 2013.

(17) Per simili versioni di Aristofane, con esempi, cf. gli articoli di M. Treu citati sopra, specie alle nn. 3, 6, 7 e 16.

 

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