Una Alcesti di IV secolo d.C. al Teatro Arsenale di Milano

di Sotera Fornaro

Una Alcesti di IV secolo d.C. al Teatro Arsenale di Milano

1. Luciano (II sec. d.C.) fu un brillante scrittore greco il cui nome è familiare agli studenti del ginnasio, dato che usò esemplarmente la lingua greca attica pur essendo originario di una città orientale, Samosata, sulle sponde dell’Eufrate (oggi in Turchia): nei suoi numerosi scritti si mostra curioso, attento e assai spesso satirico della inquieta epoca in cui si trovò a vivere. Della oscura vita di Luciano, che non vuole dire nulla di sé, possiamo supporre che fu piuttosto raminga e che lo portò, in difficoltosi viaggi, dall’Asia ad Atene a Roma. 

 Durante questi spostamenti, frequentò anche gli affollatissimi luoghi teatrali di città popolose, piene di stranieri, di falsi filosofi e numinosi profeti seguiti da folle osannanti. Fu dunque un esperto delle molteplici forme teatrali di una società che in generale si può definire per molti versi dell’apparenza e dello spettacolo. Da qui la sua attenzione per l’arte e l’architettura ed anche per le esibizioni di vario genere, di eloquenza ma anche musicali, che si tenevano nei teatri, nei ginnasi, negli auditori, per le strade. Luciano, dunque, sembra apprezzare una forma di spettacolo tipica della sua epoca, chiamata pantomima (= danza, gesto in movimento, musica, canto, parola): uno spettacolo nuovo, ossia sconosciuto alla cultura greca d’età classica, di grande successo però durante i lunghi secoli dell’Impero Romano. Tra i suoi scritti figura un opuscolo intitolato De saltatione, Sulla danza (vedi la traduzione e il commento di S. Beta, Venezia, Marsilio, 1992), che non deve interpretarsi come una satira e che anzi descrive nei dettagli, nonostante il titolo, l’arte promiscua della pantomima, nobilitata dal raffronto con l’antichissima danza. Per noi si tratta di una fonte essenziale e competente sulla pantomima, insieme alla più tarda orazione In difesa della pantomima di Libanio, altro retore greco originario di Antiochia di Siria, oggi in Turchia (metà del IV sec. d.C.) . Nella pantomima, gesto e parola, invece di opporsi, si univano, sorretti dalla musica, realizzando uno spettacolo che conquistava, divertiva, e tuttavia conservava i temi del dramma più antico e della tragedia in particolare ed anche il loro significato morale. I pantomimi, infatti, mettevano in scena anche i miti che erano stati il soggetto della tragedia ateniese del V sec. a.C., i cui protagonisti portano i nomi di Edipo, Oreste, Clitemnestra, Medea, ad esempio. Si sa che la tragedia ateniese, dopo il V sec. a.C., perse naturalmente la funzione cittadina e politica per la quale era stata soprattutto scritta e messa in scena; e se pure probabilmente le tragedie classiche furono replicate anche in età romana nella loro interezza, i possibili riferimenti ai fatti ateniesi del V sec. a.C. non potevano più essere compresi, né dal pubblico teatrale, né da più edotti lettori. Si trattava, inoltre, di spettacoli archeologici, troppo impegnativi e difficili, anche dal punto di vista linguistico, perché fossero davvero apprezzati da un pubblico numeroso che, molti secoli dopo, non era certo spinto da interessi eruditi. Perciò, da quel che sappiamo, le tragedie furono, nei primi secoli della nostra età, in un certo senso smembrate per renderle più fruibili: i canti del coro, che erano musicali e pensati anche per la danza, sopravvissero staccati dal corpo delle tragedie originarie, di cui invece gli attori virtuosi potevano interpretare anche solo alcuni episodi, forse quelli più adeguati all’esigenza di emozioni forti del pubblico d’età imperiale. Nei teatri e negli anfiteatri si assisteva infatti ai sanguinosi scontri gladiatori, alle violente cacce di animali; talora, nelle scene che rappresentavano miti oscuri, gli attori venivano forse davvero uccisi in scena. I moralisti dei primi secoli d’età imperiale, perciò, con la severità propria degli intellettuali, per lo più disprezzano il teatro e lo spettacolo, lo considerano fonte di disordini e di una cultura violenta ‘di massa’. Di sicuro un’élite di intenditori colti, che conosceva il greco classico, possedeva preziose edizioni dei tragici di V sec. a.C. nelle biblioteche di lusso, ed alcuni continuavano a leggere le tragedie in quanto libri (si ricordi l’orazione LII di Dione Crisostomo, ad esempio). Sappiamo che si diffuse persino un mercato antiquario di libri, seppure molti falsi, abilmente antichizzati per essere venduti a caro prezzo a bibliomani ignoranti, come il Trimalchione del Satyricon. Ma il grande pubblico conosceva soprattutto i miti tragici, se pure nelle grandi linee, e talora solo qualche episodio saliente delle tragedie di V sec. a.C., specie se poteva essere adattato alle nuove tecniche di performance. I pantomimi, del resto, dovevano disporre di notevolissime capacità tecniche (vedi M. Marinelli, Le discipline del corpo nel teatro antico: il caso di Luciano di Samosata, «Il castello di Elsinore» LXXIV 2016 25-57 e Id., Il corpo del performer nel Pro saltatoribus di Libanio, «Il castello di Elsinore» LXXV 2017 9-23). Da quello che ancora testimonia Luciano, eseguivano movimenti sapienti, veloci, e doveva essere stupefacente il loro trasformismo (da un personaggio all’altro, da un personaggio umano ad uno animale, dalla rappresentazione di un essere animato ad uno inanimato, come la pietra o il fuoco). Al punto che Proteo, il dio per antonomasia della metamorfosi, fu considerato, per la mania antica di voler trovare il ‘primo inventore’ d’ogni cosa, il capostipite dei pantomimi e l’inventore della loro arte. La questione naturalmente resta quale fosse il ruolo del testo in uno spettacolo tanto basato sul gesto e sulla corporeità.

2. Per rispondere a quest’ultima domanda, ci può aiutare anche un documento papiraceo assai problematico, scoperto dal catalano Ramón Roca-Puig negli anni Cinquanta del secolo scorso al Cairo, che contiene, tra vari scritti, un componimento poetico su Alcesti. Conservato dapprima, insieme ad altri papiri, in una fondazione creata ad hoc a Barcellona nel 1952, questo componimento è noto come Alcesti di Barcellona. Dalla editio princeps di Roca-Puig del 1982 si sono succedute altre edizioni critiche, nessuna però definitiva, tra le quali la migliore resta quella commentata di Lorenzo Nosarti (Bologna 1992): per un bilancio del lavoro svolto e prospettive future di ricerca si rinvia a P. Paolucci, Rileggendo l’Alcestis di Barcellona, «AL. Rivista di studi di anthologia latina» VIII 2017 125-79. Della celebre tragedia di Euripide permane, in questo testo del IV sec. d.C. (forse V), solo ed ovviamente il mito, ossia la vicenda di Alcesti che sacrifica la propria vita per concedere più tempo da vivere al marito Admeto che sa, dopo la rivelazione di Apollo, di essere prossimo alla morte. Il mito, assai fortunato sino ad oggi, rappresenta un estremo ed inaudito atto d’amore; per contrasto, nemmeno i vecchi genitori acconsentono di sacrificarsi per il figlio. Nella tragedia di Euripide, Alcesti viene infine miracolosamente riportata alla vita da Eracle e restituita a Admeto. Nel testo conservato nel papiro, invece, la donna muore, e i versi raccontano sin nei minimi dettagli i preparativi del letto funebre e gli ultimi momenti di Alcesti, mentre già i brividi della morte ne paralizzano le membra e l’oscurità reale e metaforica la avvolge. L’attenzione al corpo, alle mani che si impietriscono, ai piedi raggelati, ai gesti di supplica e preghiera, al volto che impallidisce, può suggerire che questa poesia fosse destinata ad una rappresentazione teatrale (così pensano G.F. Gianotti, Sulle tracce della pantomima tragica: Alcesti tra i danzatori?, «Dioniso» LXI 1991 121-49 e E. Hall, Is the ‘Barcelona Alcestis’ a Latin Pantomime Libretto?, in E. Hall – R. Wyles (ed.), New Directions in Ancient Pantomime, Oxford 2008, 258-82). Il testo, inoltre, intreccia i dialoghi tra i personaggi, in cui si inserisce come filo conduttore la voce di un narratore. Si può certo anche pensare che il testo fosse destinato alla sola lettura, poiché il gesto di Alcesti, in piena età cristiana, mostrava un esempio pagano, ma ammirevole, di etica del sacrificio, del martirio, dell’indissolubile amore coniugale. In cambio della propria vita Alcesti chiede infatti al marito solo eterna fedeltà e promette che sarebbe tornata, immagine incorporea, accanto a lui ogni notte, intrigando il lettore con una storia di fantasmi. Una messa in scena italiana dell’Alcesti di Barcellona si ebbe presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze il 17 giugno 1999, promossa da Olimpio Musso e a cura degli studenti del corso di Storia del Teatro Greco e Latino (cf. A. Burlando, L’Alcesti di Barcellona a teatro, «Orpheus» XXI 2000 17-25).

3. La performance del Teatro Arsenale a cura di Kuniaki Ida e Marina Spreafico, due attori familiari al pubblico milanese e che tra l’altro hanno in comune la formazione parigina negli anni ’70 alla Scuola Internazionale di Teatro Jacques Lecoq, si è concretizzata invece su proposta di Raffaella Viccei. Quest’ultima, archeologa, aveva già ideato e seguito, nel 2009, una diversa rappresentazione dell’Alcesti di Barcellona in un luogo storicamente appropriato, il Museo sensibile del Teatro romano di Milano, allora però con un unico performer, il bravo Paolo Stoppani (cf. R. Viccei, L’area archeologica del teatro romano di Milano. Monumento e valorizzazione, «Stratagemmi» X 2009 43-49). Oggi si è voluta consapevolmente istituire una linea di continuità dal teatro antico di Milano (http://www.milomb.camcom.it/teatro-romano) ad uno dei teatri di ricerca della metropoli contemporanea, che compie quest’anno ben 40 anni di attività (http://www.teatroarsenale.it/): i due teatri fisicamente distano tra l’altro poche centinaia di metri, quasi a sottolineare che non bisogna dimenticare né l’uno, con la sua storia e la sua attrattività anche turistica, né l’altro, con la sua costanza d’azione, il suo incisivo carattere sperimentale ed i suoi problemi, logistici e economici. La performance ha svelato tutte le potenzialità drammatiche dell’Alcesti di Barcellona, cercando di penetrare nell’enigma dell’originaria destinazione di questo testo. I bravi attori della Scuola Teatro Arsenale (Veronica Del Vecchio, Greta Di Lorenzo, Ian Gualdani, Alessandro Pozza, Barbara Villa) hanno saputo rendere il succedersi immediato delle voci dei personaggi, l’intensità dei dialoghi, la fluidità dell’azione. La parola è rimasta comunque a commento dei gesti, dei movimenti, della musica (ottimo il commento sonoro di Sergio Armaroli): i corpi, nello scivolare nel buio della scena, già da soli infatti hanno espresso l’iniziale disperazione di Admeto venuto a conoscenza del suo destino; poi il rifiuto sdegnoso ed irato dei genitori davanti all’egoistica richiesta del figlio; ed infine la purezza di Alcesti, icona luminosa nel buio, circondata da un’aura misteriosa come di immagine sacra, statuaria nel proporsi con semplicità al sacrificio. L’epilogo rappresenta il progressivo abbandono della donna all’ignoto, lo smorzarsi dei movimenti come lento valicare la soglia del regno delle ombre, l’Ade invisibile agli uomini. Un potente esordio, con la voce oracolare fuori campo del dio Apollo, immerge gli spettatori in un aura sacrale, ossia nel rito del teatro arcaico, in cui contano più le presenze dei corpi (e le loro assenze) che non gli effetti speciali. Che pure nell’antichità dovevano esserci, come ci sono oggi: ossia il gioco tra luci e ombre, a suggerire la compresenza di vita e morte nella realtà quotidiana; i sussurri della natura che partecipa degli stati d’animo degli uomini, delle loro gioie, dei loro lutti; i profumi e gli incensi che accompagnano il rito funebre e che vengono evocati dalla voce del poeta-narratore in questa Alcesti suggestivamente tradita da un papiro, come ha premesso Kuniaki Ida (che dopo la formazione a Tokyo, dal ’76 risiede in Italia, ed oltre che alla Scuola dell’Arsenale insegna alla ‘Paolo Grassi’ del Piccolo). Abbiamo assistito dunque ad una performance di ‘teatro’ nel suo primo significato, ossia luogo dove si guarda e si partecipa. Il testo allora, qui nella nuova, fedele eppure limpidissima traduzione di Raffaella Viccei, diviene innanzitutto voce, ossia elemento sensibile: e per questo il narratore non sta a parte, rispetto ai personaggi, ma si integra con loro, partecipa dell’azione, e dà così anche indirettamente espressione al pubblico, come se seguisse a voce alta i suoi pensieri. Ed il pubblico, alla fine della performance, manifesta giustamente la sua commozione ed il suo entusiasmo.

4. L’importanza dell’esperimento del Teatro Arsenale sta innanzitutto nella rivisitazione di un testo antico raro e così diverso dai grandi classici che sono di continuo rimessi in scena, riscritti, riadattati, attualizzati; ci mostra che l’antichità ci rende più ricchi di quel che crediamo, se non ci lasciamo condizionare da pregiudizi idealistici; dimostra l’empatia tra teatro contemporaneo di sperimentazione ed un teatro antico che conosciamo pochissimo, destinato probabilmente a spazi più ristretti, come i ginnasi o gli auditori, rompendo un’immagine abusata e monumentale del teatro antico, che è molto parziale. Credo che questa riuscita performance abbia molto da suggerire proprio agli studiosi di teatro, perché rende vivo un testo poetico che è stato spesso definito ‘di scuola’ con significato vagamente peggiorativo. Invece il teatro di quell’antichità che chiamiamo ‘tarda’ emozionava, insegnava, trascinava, riprendeva miti antichissimi in una nuova luce performativa, si rivolgeva ad un pubblico che di questi miti era assetato, com’è ancora oggi, senza necessariamente disporre di testi lunghi o di ripescarli dall’abisso della storia (tra l’Alcesti di Euripide e l’Alcesti di Barcellona ci sono quasi dieci secoli!). Questa performance fa riflettere anche chi per mestiere si occupa di testi come l’Alcesti di Barcellona, curandone le edizioni, le traduzioni, i commenti: ed andrebbe proposto perciò nelle aule universitarie a chi quei testi studia con scrupolo, metodo e strumenti filologici, ma deve nondimeno porsi anche questioni di tecnica teatrale e interrogarsi sulla natura della loro perfomatività, come hanno ricordato i registi da una parte e Raffaella Viccei dall’altra nella introduzione allo spettacolo dell’Arsenale, annunciando un suo libro in corso di pubblicazione (L’anima fuggente. Riflessioni teatrali sulla Alcesti di Barcellona). Perché i testi di teatro antico, a partire da quelli greci dell’età classica, non furono mai solo libri da leggere in solitudine e consultare spesso, traendoli dagli alti scaffali delle biblioteche.

Sotera Fornaro