Premessa
Nel riscrivere il mito di Medea Seneca si misurò certamente con la tradizione teatrale latina, per noi perduta, all’interno della quale doveva occupare un posto di spicco l’omonima tragedia di Ovidio.
Rispetto al celebre modello di Euripide le innovazioni sono di notevole rilevanza: la maga già nel prologo è preda dell’ira e di una follia incoercibile che la spinge a ribaltare ogni ordine, fisico ed etico; l’antagonista Giàsone è indotto dall’amore per i figli a ripudiare la terribile compagna ed è reso debole dalla consapevolezza delle proprie colpe, la più grave delle quali è l’aver sfidato il mare con la prima nave violando le leggi della natura; nell’ordire il suo piano Medea si pone in gara con i delitti realizzati da virgo e postula la necessità che il suo amante-nemico sia vittima e spettatore del castigo inflittogli.
Al pari degli altri protagonisti del teatro senecano, l’eroina esercita un dominio pieno e incontrastato sull’intera azione drammatica grazie all’eccezionale energia creativa che la caratterizza. Medea entra in scena squassata dalla patologica, esasperata violenza della passione, frutto del tradimento di Giàsone che le nega il ruolo identitario di moglie e madre ma, al contempo, tutta protesa alla macchinazione di una vendetta che le consenta di attuare la punizione esemplare dell’offesa ricevuta e di dar prova della propria virtus che si configura come capacità di compiere il male, anzi di infliggere un male più grande rispetto a quello subito.
Non diversamente da Àtreo nel Tieste, ella costruisce la sua maschera mitica invocando le Furie e chiamando dentro di sé il furor, che rende ineludibile la progettazione del delitto perfetto e assoluto, tale da scardinare l’ordine cosmico; il misfatto cui aspira deve rispondere all’esigenza della novità, porsi in competizione con i crimini commessi in precedenza e assicurare imperitura gloria all’artefice-artista. L’elaborazione e l’esecuzione di questo delitto di sovversione vengono così a definirsi secondo i termini della creazione poetica, mentre la madre assassina diviene doppio speculare e portavoce paradossale del poeta tragico.
Per contro, Giàsone appare incapace di agire, ossessivamente perseguitato dal terrore che gli incute il potere regale, ed è il timore per i re Creonte e Acàsto che lo costringe a rompere il patto coniugale, proprio come, attraverso un percorso uguale e opposto, il desiderio di impossessarsi del vello d’oro, condizione necessaria per riavere il trono paterno, lo aveva mosso a solcare per primo il mare e a infrangere con empia audacia le sacre leggi dell’universo.
Compare così nel testo senecano uno sviluppo del tutto assente nella tragedia euripidea. Non si tratta della semplice giustapposizione del motivo antitirannico a quello della follia sovvertitrice dell’ordine fisico ed etico: i due temi sono inestricabilmente connessi nel secondo canto corale che, in accordo con la sua funzione, fornisce al destinatario non solo l’eziologia della vicenda mitica, ma anche il senso ultimo dell’azione scenica. Qual è stata la ricompensa del viaggio della nave Argo? s’interroga il coro. E risponde: «Il vello d’oro e Medea, male più grande del mare, merce degna della prima nave». La maga della Còlchide è dunque il mostro prodotto dalla ferita inferta alle leggi di natura volute dalle divinità e l’ambizione di possedere il vello d’oro, pegno dello scettro, ha innescato la spirale di ribaltamenti metaforicamente raffigurati con lo stabilirsi di Ade sulla terra e simboleggiati al più alto livello dalla perversione del ruolo generativo della madre che uccide i figli.
Non è certo possibile sostenere che la Medea sia a pieno titolo dramma “politico”: non, almeno, nello stesso modo e nella medesima ampiezza del Tieste. Questa via era, in misura rilevante, negata dagli elementi costitutivi del mito e dalla sua tradizione letteraria. Ma, innestando nella tragedia il tema del regnum, Seneca ci porta alle radici stesse della sovversione poiché il potere tirannico è, nella visione del filosofo e drammaturgo, il più grande dei mali e il rovesciamento massimo dell’ordine cosmico. È perciò necessario che i contenuti si strutturino secondo il modulo formale dell’inversione e che Medea aspiri non alla semplice vendetta ma al crimine supremo che ponga in fuga gli dèi e porti sulla terra e nel cielo l’oscura legge dell’Oltretomba. La pluralità di significati della tragedia trova compiuta esplicitazione in una specifica cifra espressiva: è, infatti, l’impiego sapiente di un linguaggio polisemico a consentire che accanto al discorso scenico e a quello ideologico si realizzi la simultanea meditazione dell’autore sulle modalità che presiedono alla formulazione della sua opera poetica. Per il traduttore ciò aggiunge una difficoltà di non poco conto alla già ardua impresa di rendere in termini teatrali, e al tempo stesso filologicamente corretti, un testo tanto ricco di valenze molteplici.
Ho ritenuto che il modo migliore per rispettare la complessità della parola di Seneca, la sua forza comunicativa nei confronti del pubblico, fosse l’adozione di un registro che rifuggisse quanto più possibile da ogni tentazione espressionistica. E del resto la Medea è dramma rigorosamente intellettuale, che si giuoca nella mente dei protagonisti ancor prima che sulla scena, e in cui la parola è chiamata a farsi essa stessa spettacolo visionario, ad aprire spazi altri rispetto a quelli in cui ha luogo l’azione, a rappresentare un universo sovvertito e devastato dalla furia delle passioni.