How often do you think about the Roman Empire? Se i social network pensano all’Impero Romano più degli antichisti.
Abstract
La società post-digitale è caratterizzata da un forte interesse per l’antica Roma che ha ormai invaso anche i social network. Tuttavia, questa esplosione di attenzione lascia gli antichisti ai margini: Roma è ovunque, ma difficilmente la società riconosce ai professionisti del settore un ruolo di guida o un’autorevolezza particolare. Questo accade anche perché il divario tra il pubblico – persino quello colto o para-professionale, come gli insegnanti della scuola secondaria – e la ricerca accademica è diventato enorme. Tale distanza è stata accentuata dall’iper-specializzazione, che a sua volta è stata determinata anche dalla riduzione quantitativa e qualitativa del tempo dedicato alla ricerca.
Ma c’è di più: l’eccessiva frammentazione in nicchie ha portato gli stessi studiosi a smettere di leggere il lavoro dei colleghi. Parallelamente, le candidature per i bandi più prestigiosi non richiedono più la presentazione delle pubblicazioni, ma solo una sorta di bibliografia commentata, in cui l’autore elenca i titoli dei propri lavori e ne descrive rilevanza e impatto. In questo contesto, la diffusione di sistemi di intelligenza artificiale capaci di leggere centinaia di PDF e riassumerli in modo già oggi abbastanza soddisfacente potrebbe dare il colpo di grazia alla pratica della lettura della bibliografia. Di conseguenza, la domanda fondamentale è: perché e per chi si scrive la ricerca umanistica nella società post-digitale?
The post-digital society is marked by a strong fascination with ancient Rome, which has now permeated even social media. Yet this surge of interest has largely left professional classicists on the margins: Rome is everywhere, but society seldom acknowledges scholars in the field as guides or authoritative voices. This disconnect stems in part from the widening gap between the public – including educated or para-professional audiences such as secondary school teachers – and academic research. The divide has been exacerbated by increasing specialization, itself a consequence of both the quantitative and qualitative erosion of time available for research. More than that, excessive fragmentation into scholarly micro-niches has led researchers to stop reading one another’s work.
At the same time, applications for prestigious research grants no longer require submission of full publications, but merely annotated bibliographies in which applicants list their outputs and describe their significance and impact. Within this landscape, the rise of AI tools capable of scanning hundreds of PDFs and generating reasonably accurate summaries may deliver the final blow to the already weakened practice of reading scholarly literature.
Against this backdrop, the fundamental question emerges: why – and for whom – is humanities research written in the post-digital age?
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